martedì 31 gennaio 2012
mercoledì 25 gennaio 2012
Litfiba: Grande Nazione
Il tempo, ultimo tema analizzato con Infinito nella Tetralogia degli Elementi (dopo fuoco terra, aria e acqua) si sa cura le ferite. Galantuomo ha finito con l'appianare i dissapori profondi tra Piero e Ghigo, ponendo fine ad un divorzio ormai decennale. Forse è l'unico vincitore nella guerra fredda tra le due anime dei Litfiba, quello stesso gruppo che secondo Pelù "nei Novanta era diventato come la Dc dei Settanta: ciò che ci sforzavamo di combattere agli esordi". La carriera solista del cantante fiorentino seppur commercialmente florida, iniziò nel peggiore dei modi (Toro Loco), mentre i Litfiba senza il loro leader indiscusso terminarono altrettanto male sul finire degli anni zero ridotti a suonare alle sagre di paese. Sul sito ufficiale del gruppo, dove sono stati eliminati dalla discografia ufficiale i 3 (trascurabili) album di Ghigo, sembra che dieci anni non siano nemmeno passati. Con il salto a pié pari da Infinito, via Stato Libero, all'ultimo Grande Nazione, quasi che il decennio da separati in casa fosse un onta di cui vergognarsi. Sonicamente siamo lontani dal pop morriconiano de Il mio corpo che cambia, sostituito da un sound nel complesso simile alle atmosfere di Spirito e in misura minore Terremoto, coppia di album quelli veramente memorabili, classici della fase a due dei Litfiba appena sotto ai capolavori con la prima formazione (da Desaparecido a Litfiba3). Purtroppo l'album evidenzia un unico difetto grandissimo: il primo singolo, banale, tamarro, Lo Squalo. Pessima scelta quindi, perché poi il wah wah di Ghigo, le invettive di Piero sulla malaffare all'italiana ci sono tutte, come negli anni belli di Terremoto, c'è lo sdegno nei confronti della politica (Tutti Buoni), l'atmosfera rock tzigana di Fiesta Tosta, la ballad conclusiva de La Mia Valigia. Se dal vivo hanno ancora un gran tiro, in studio però c'è un pò di ruggine... D'altronde lo dice anche Piero nell'energica Brado "Essere liberi non è mai gratis" e i dieci anni in solitaria forse sono costati (caro) a entrambi.
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giovedì 19 gennaio 2012
Queens of The Stone Age: Song For The Deaf
Una macchina sfreccia lungo le polverose strade del deserto americano, a bordo personaggi poco raccomandabili, brutti ceffi. Un sound ossessivo, l'incedere del basso cupo, un drumming indemoniato e un pugno di canzoni memorabili. Al terzo disco le regine fanno il colpaccio: Songs For The Deaf è probabilmente il miglior lavoro mai pensato dalla mutevole formazione capitanata da Homme. Due anni dopo l'apprezzato Rated R i Queens _ per l'ultima volta con Nick Olivieri _ stanno vivendo il loro momento magico, ammantato da un fascino oscuro e immortalato nel delirante ed iconico video di No One Knows. A conti fatti proprio questa breve parentesi di estasi infernale ha dato agli orfani del rock di Seattle e non solo una nuova prospettiva in anni dove il trascurabilissimo "new metal" non brillava certo per originalità o voglia di sperimentare. Dopo Songs... il gruppo, guidato dal solo Homme, non si ripeterà mai più, prodigandosi tra lavori discreti (Era Vulgaris) ma letteralmente svuotati da quell'imprevidibilità/pazzia di questi brani. Dischi piacevoli, ma per carità, Songs... è tutta un'altra cosa. Un esempio perfetto in questo senso è rappresentato dalla title track in cui, dal nulla spunta la voce di Lanegan in una staffetta con il fondatore del gruppo, poi l'annuncio di uno speaker radiofonico a cui seguono pochi secondi di caos. First It Giveth non ha bisogno di presentazioni, God Is The Radio invece sembra la gemella cattiva _ specie nella sua parte introduttiva _ della floydiana Money. Mosquito Song è il pezzo che più di tutti, si avvicina con un piglio seventies alla comune concezione di ballad, certamente più di Another Love Song. In definitiva si tratta di un disco senza cali di tensione o brani minori, molto più forte nel suo insieme rispetto alla sue singole componenti prese singolarmente.
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giovedì 12 gennaio 2012
Maria Antonietta: S/T
Verrebbe quasi da crederle quando dice che tutte le sue canzoni parlando di... ehm... un solo c#%!zo di argomento: la sua incapacità di accettare la realtà. Invece, a dispetto della parafrasi, le cose sono ben diverse. L'ex cantante degli Young Wrists sa bene come muoversi, e soprattutto cosa dire. Sa bene che questi pezzi consegneranno al pubblico un piccolo bignami di citazioni. Sa bene quanta fortuna ha portato quella “spiaggia deturpata” a Vasco Brondi (aka Le Luci della Centrale Elettrica). Certo, sentire parlare di massimi sistemi e Dio fa un po sorridere in un disco così, meglio quando parla in prima persona, quando si racconta e ci racconta qualcosa di se (Saliva), o forse (maligno) dell'immagine che sta facendo passare (“Ed ho mentito per una vita intera”, confessa in Maria Antonietta). Le uscite che fa, con piglio nevrotico, sembrano quasi calcolate, studiate passo passo. Forse certi testi non sono nemmeno così difficili da scrivere, ma il brutto _ c'è da scommetterci _ inizia quando ci si trova davanti ad un microfono. In questo Maria Antonietta sa il fatto suo. A livello di stile emerge su tutti un dato inconfutabile: una camaleontica vena interpretativa, capace di fondere assieme diversi registri, umori e stati d'animo. Un'altra cosa è certa, canzoni del genere, nel bene e nel male non lasciano indifferenti. Citando tutti e nessuno _ Nada, la Consoli, Juliette Lewis, Karen O etc._ Maria Antonietta piega lo stereotipo rock (Motel) a proprio uso e consumo attraverso una buona dose di indie/punk/pop/lo-fi. Probabilmente se la Pausini avesse avuto un briciolo del carisma di Maria, avrebbe mandato Marco all'inferno appena messo piede su quel treno, risparmiandosi (e risparmiando all'umanità) vent'anni di Solitudine.
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mercoledì 4 gennaio 2012
Amy Winehouse: Lioness, Hidden Treasures
Our Day Will Come è, dall'inizio alla fine _ per i suoi 2 minuti e 46 secondi totali _ perfetta. L'unica testimonianza tangibile, compiuta e finita di quanto Amy avesse in mente per il post Back to Black best seller mondiale. Voleva un disco vagamente dalle atmosfere in levare, nuovo background sul quale innestare la sua voce, incredibile. Una capacità interpretativa unica, ma oggetto di infiniti tentativi di imitazione (specie in Italia, dove talent show di plastica proponevano, giusto due o tre anni fa vergognosi e imbarazzanti cloni). A causa della sua prematura scomparsa, il mosaico non ha preso mai forma, lasciando ai fan di mezzo mondo un pugno di mosche. Almeno fino alla pubblicazione di questo disco postumo. Lioness: Hidden Treasures, pur non essendo per definizione e genesi il "vero" terzo album della tormentata soul singer è quantomeno un testamento artistico dal grande valore, un'eterogenea panoramica sul suo tormentato percorso artistico dell'ultima iscritta al club dei 27 (assieme a lei Kobain. Morrison, Jones, Hendrix...). Si va dalla cover di The Girl From Ipanema, prima canzone suonata a un produttore nel 2002 (quindi ben prima del debutto pop jazz di Frank), all'ultimo brano inciso in studio nella sua vita, Body and Soul, duetto con il crooner Tony Bennet. In mezzo una manciata di cover, versioni alternative e altre outtake. Tears Dry, rallentata, ha lo stesso incedere di Love Is A Loosing Game. La minimale Wake Up Alone, registrata al volo è l'altra faccia della strutturata Like Smoke duetto con il rapper Nas, il Mr.Jones del secondo album: un cerchio che si chiude, in maniera perfetta, ma nel peggiore dei modi.
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