Un album di transizione. Una polaroid
vecchia venti/venticinque anni: (anche) questo è The Silver
Gymnasium, l'ultimo lavoro degli Okkervil River, che qui scelgono la
via del disimpegno, senza prendersi troppo sul serio confezionano un
bel concept basato sull'infanzia e l'adolescenza di Will Sheff. E
proprio le gesta del cantante nella sua Meriden (microscopico paese
di 500 anime nel New Hampshire) sono il fulcro dell'intero progetto.
Un'operazione di recupero (quasi totale) non solo di esperienze,
ricordi edulcorati, foto sbiadite, appunti o vecchi giochi in
soffitta: nel booklet del disco c'è la cartina di Meriden e sul
sito web del gruppo un videogame 8 bit, preistorico ed efficace
tentativo per immergersi nel mood del progetto. In ossequio ad una
decade così interessante e controversa come quella, gli Okkervil
scelgono anche di cambiare pelle: meno folk, meno asperità e
struggimento e più tastiere. Qualcuno ha gridato alla blasfemia
sentendole padrone assolute di Stay Young (forse troppo audace
l'arrangiamento proposto). Ma è su di loro che si regge l'impalcatura di The Silver Gymnasium. Va detto anche che l'involuzione è
voluta, testimonianza dell'attrazione nostalgica di Sheff, perso
nella (ri)costruzione del suo passato. Il disco prende il nome dalla
palestra della scuola di Meriden, per intenderci quella del ballo di
fine anno, e alcuni episodi, come Where The Spirit Left Us, ne
sembrano la colonna sonora ideale. Dicevamo meno folk e più pop. A
chiudere il cerchio il producer John Agnello, che ha dato ai brani
una patina Ottantiana oggi così mainstream. White oltre ad essere il
pezzo migliore, è l'eccezione che conferma la regola in un album che
ammicca _ specie in Down Down The Deep River _ allo Springsteen di metà Ottanta. A modo loro anche gli
Okkervil River hanno fatto un piccolo, disfunzionale tributo a Born
in The Usa
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