Un lungo stand by discografico ci
permette di (ri)collocare Pete Doherty nella dimensione a lui più
congeniale _ con l'eco gossipparo di relazioni turbolente (Kate Moss)
e rapporti burrascosi con l'antidroga, ormai lontano. Dalla giusta
distanza l'ego bohemienne dell'ex Libertine ne esce ridimensionato,
tanto che si fatica a capire il clamore suscitato dal precedente Down
in Albion, disco tossico che oltre a Fuck Forever ha prodotto ben
pochi sussulti. Stavolta abbiamo tra le mani un album piacevole e
disteso. Che abbia finalmente trovato un equilibrio? Canta ancora con
pigrizia, quasi trascinandosi le parole, come ai bei tempi, ma
mancando l'impredibilità del prequel, il sequel risulta un pò
telefonato. Ibridi tra Cure e Smiths, con rimandi ad un folk rock fin
troppo rilassato, imbastardiscono (migliorandolo) il sound à la
Doherty. Intendiamoci, brutte canzoni non ce ne sono, il tenore
complessivo è sufficiente, con spunti interessanti, ad esempio l'inizio e
il chours di Farmer's Daughter che poi si perde per strada. Sfruttare
l'inerzia non sempre rende: non a caso l'aggettivo più usato da
molti cybernauti su You Tube a corredo degli estratti dell'album è
stato boring. Poi di cose che funzionano ce ne sono, penso al mood
complessivo di Picture me in a Hospital, nonostante il ricorso a
immagini stra usate. Tra le novità l'input americano di Nothing
Comes to Nothing, vicina ai dischi solisti degli ex Replacements
(Stinson e Westerberg). Più a fuoco del prequel ma sicuramente un
sequel meno imprevedibile
sabato 23 novembre 2013
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