giovedì 21 ottobre 2010

Linkin Park: A Thousand Suns

In molti passaggi, l'ultimo dei Linkin Park sembra quasi la colonna sonora di un film. Una musica di sottofondo, mai invadente, meno strillata rispetto ai fasti di inizio carriera per questi 6 losangelini che, ormai 10 anni fa hanno individuato una via "pop" e accessibile per il new metal. Un disco che senza troppo clamore, prosegue nel solco melodico di Minutes to Midnight. Chester Bennington non urla praticamente più, con buona pace delle sue corde vocali, mentre del wall of sound dei chitarroni distorti non c'è quasi traccia. L'altra voce, quella di Mike Shinoda rappa qua e la come in When they come for me, nulla di che. A Thousands Suns si fa apprezzare più per le intenzioni che non per il risultato finale. Rick Rubin tiene in piedi la baracca, salvando il disco con una produzione ancora una volta ineccepibile, adattandosi alle richieste e allo sperimentalismo ricercato a tutti i costi della band. Velleitario, giudicando complessivamente questo album. Fatto di pezzi deboli, al limite dell'ambient, strumentali appena abbozzati, che si sposano a voci campionate, rumori di spari e urla al megafono inserite per dare ancora più risalto al connubio tra certi suoni asettici e la descrizione (l'ennesima) di un futuro imminente à la Blade Runner . Ecco il motivo della falsa partenza dell'album che inizia sulla carta con The Requiem, composta da una nota di piano ripetuta ossessivamente su un tappeto di synt e la voce effettata di una donna che riprende il ritornello di The Catalyst. L'uno due iniziale si completa con The Radiance, opener per la prima canzone "vera", Burning in the Skies possibile secondo singolo, che finalmente a 2' e 40'' fa sentire il suono della chitarra di Brad Delson. Il pianoforte è ancora protagonista nell'intro di Robot Boy. Il meglio dell'album lo regala la piacevole ballad Waiting for the end, in cui Shinoda e Bennington si dividono le parti vocali, seguita da Blackout, un pezzo travolgente che riesce nell'operazione (all'apparenza autolesionista) di unire scratch new metal e un cantato in growl con un piglio da pop anni '80. The Catalyst convince nonstante alcuni effetti poco a fuoco che rovinano l'ottima idea di partenza. Wisdom, Justice and Love, prosegue nella malinconica narrazione pensata dai nostri che rialzano la testa con Iridiscent che vorrebbe essere U2 ma finisce per assomigliare ai 30 Second To Mars di This is War. Un'occasione persa.

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