sabato 30 ottobre 2010

Il mercato discografico implode

I Litfiba a X Factor (comunque gli unici ad aver suonato dal vivo nella storia del programma) e la penosa Irene Grandi che fa la pubblicità al Pocket Coffè.

giovedì 28 ottobre 2010

Kings Of Leon: Come Around Sundown

Nientemeno che il NY Times ha definito Come Around Sundown come il "blockbuster rock della nuova stagione". Questo per dire che un po tutti aspettavano al varco i Kings of Leon dopo le buone prove offerte con Because of The Times e Only By The Night. Le aspettative erano molto alte per quella che non è solo una band ma a conti fatti il "clan Followill" (composto da 3 fratelli e un cugino), il risultato però non riesce a spiegare il perché di tutte quelle recensioni entusiastiche. Smussati definitivamente gli spigoli southern e garage dell'esordio, i Kings of Leon hanno licenziato un disco malinconico, fatto principalmente di ballate. Chitarra, basso e batteria vogliono aggiornare la lezione degli u2 dei tardi anni '80 (strano come chiunque cerchi di clonare quel suono, compresi gli stessi irlandesi, cristallizzati nel riproporre quelle atmosfere sin dal post Pop Mart Tour) con ammiccamenti vari alla disperata ricerca del coro da stadio. Questa è la dimensione che ormai compete al quartetto, spronato nell'olimpo da label e addetti ai lavori. Sarebbe facile, con le spalle un pò più larghe cavarsela, ma così non è. La partenza è buona, con Radioactive che pesca un riff di matrice The Edge unendolo ad un basso poderoso. Mary è l'unica divagazione fuori tema ( offre addirittura un assolo) con un piglio decisamente soul e le sei corde che, finalmente smettono di gingillare tra un arpeggio e l'altro e imbastiscono il fondamento ritmico del brano. The Face è struggente e bella per davvero alla pari di The Immortals (per una frazione di secondo vagamente Police) e volendo vedere equivalente ad altri pezzi inseriti nella track list. Il problema è proprio questo: presi singolarmente i vari capitoli del disco risultano godibilissimi, ma sentiti tutti d'un fiato risultano troppo simili, e telefonati. Back Down South almeno profuma (vagamente) di country, Birthday rischia di dare assuefazione, a differenza di altri riempitivi (la soporifera Mi Amigo) che nulla aggiungono e tolgono a quanto fatto da questi americani. Troppo composti, rischiano di non riuscire mai ad esprimersi liberamente.

giovedì 21 ottobre 2010

Linkin Park: A Thousand Suns

In molti passaggi, l'ultimo dei Linkin Park sembra quasi la colonna sonora di un film. Una musica di sottofondo, mai invadente, meno strillata rispetto ai fasti di inizio carriera per questi 6 losangelini che, ormai 10 anni fa hanno individuato una via "pop" e accessibile per il new metal. Un disco che senza troppo clamore, prosegue nel solco melodico di Minutes to Midnight. Chester Bennington non urla praticamente più, con buona pace delle sue corde vocali, mentre del wall of sound dei chitarroni distorti non c'è quasi traccia. L'altra voce, quella di Mike Shinoda rappa qua e la come in When they come for me, nulla di che. A Thousands Suns si fa apprezzare più per le intenzioni che non per il risultato finale. Rick Rubin tiene in piedi la baracca, salvando il disco con una produzione ancora una volta ineccepibile, adattandosi alle richieste e allo sperimentalismo ricercato a tutti i costi della band. Velleitario, giudicando complessivamente questo album. Fatto di pezzi deboli, al limite dell'ambient, strumentali appena abbozzati, che si sposano a voci campionate, rumori di spari e urla al megafono inserite per dare ancora più risalto al connubio tra certi suoni asettici e la descrizione (l'ennesima) di un futuro imminente à la Blade Runner . Ecco il motivo della falsa partenza dell'album che inizia sulla carta con The Requiem, composta da una nota di piano ripetuta ossessivamente su un tappeto di synt e la voce effettata di una donna che riprende il ritornello di The Catalyst. L'uno due iniziale si completa con The Radiance, opener per la prima canzone "vera", Burning in the Skies possibile secondo singolo, che finalmente a 2' e 40'' fa sentire il suono della chitarra di Brad Delson. Il pianoforte è ancora protagonista nell'intro di Robot Boy. Il meglio dell'album lo regala la piacevole ballad Waiting for the end, in cui Shinoda e Bennington si dividono le parti vocali, seguita da Blackout, un pezzo travolgente che riesce nell'operazione (all'apparenza autolesionista) di unire scratch new metal e un cantato in growl con un piglio da pop anni '80. The Catalyst convince nonstante alcuni effetti poco a fuoco che rovinano l'ottima idea di partenza. Wisdom, Justice and Love, prosegue nella malinconica narrazione pensata dai nostri che rialzano la testa con Iridiscent che vorrebbe essere U2 ma finisce per assomigliare ai 30 Second To Mars di This is War. Un'occasione persa.

mercoledì 20 ottobre 2010

Bella.

Non mi sono mai piaciuti i Linkin Park, ma Waiting For The End, pezzo tratto dall'ultimo A Thousand Suns non è per niente male.

sabato 16 ottobre 2010

Stoned.

...quel tour sarebbe stato memorabile, probabilmente il migliore di tutta la loro vita, ma tutto questo lo avrebbero scoperto solo molto tempo dopo. Quel perfetto mix di rabbia, menefreghismo, arroganza, rock'n roll bello sporco, droghe e donne...

mercoledì 13 ottobre 2010

Queens of the Stone Age: Rated R

Mi ricordo ancora molto bene di quella recensione letta una decina d'anni fa su un magazine di settore. Al tempo ero in cerca di nuovi eroi, e _devo dirla tutta_ li per li rimasi profondamente deluso. Colpa mia, e della mia scarsa dimestichezza con lo stoner. La critica parlava talmente bene dell'album che a scatola chiusa doveva essere per forza di cose un capolavoro. Anni dopo compresi la portata del mio errore, madornale in primis perché loro, i Queens Of The Stone Age di Josh Homme e Nick Olivieri, eroi non lo sono mai stati per nessuno (forse nemmeno per se stessi), poi perché il capolavoro vero sarebbe arrivato giusto 2 anni dopo con Song For The Deaf e infine perché il resto del disco si discostava profondamente dalla hit The Lost Art of Keeping a Secret, passata addirittura da MTV. Quindi queste erano "solo" prove generali prima del botto. Ciò premesso Rated R era avanti anni luce rispetto a gran parte della scena alternative del tempo. Una creatura strana, spelacchiata e scorbutica, della quale non ci si può mai fidare fino in fondo, nonostante ti attiri con aperture melodiche illuminanti, in qualsiasi istante poi ci si può trovare risucchiati nel gorgo da ossessivi riff ripetuti in continuazione (loro parlarono di robot rock). Una musica schizofrenica, strettamente legata al paesaggio di Palm Desert e Joshua Tree, dove i nostri si divertono ancora a registrare le celebri Desert Sessions. Rated R inizia malato, con Feel Good Hit For The Summer e l'elenco_a dire il vero piuttosto lungo_ cantato con orgoglio delle sostanze di cui hanno abusato registrando il disco. Un inizio poderoso, secondo solo a quello della schizoide Tension Head urlata da Olivieri, il più estremo del gruppo. Il resto del disco è stoner della migliore specie (Monsters in Parasol) inframezzato da piccole "ouvertures", gemme alt rock (come Auto Pilot) condannate a stare in un album "maledetto e bruciato dal sole del deserto": nemmeno la meravigliosa e sublime In The Fade con Lanegan alla voce è lasciata in pace, dato che sul finire ritorna l'eco lisergico e paranoico con cui si è aperto l'album. Dalla follia generale si salva solo la strumentale The Lighting Song. A suo modo Rated R ha segnato un'epoca con un connubio unico e deviante tra stoner, anarco punk, grunge, psichedelia e alternative.

giovedì 7 ottobre 2010

Manic Street Preachers: Postcards from a Young Man

I Manics, una delle band più amate d'Albione ritornano in pompa magna ad un anno di distanza da Journal For Plague Lovers, ennesimo capolavoro di una carriera ormai ventennale. Stavolta però non c'è traccia di quella straniante e meravigliosa inquietudine che i gallesi avevano trasformato in musica ispirandosi ad alcuni testi incompiuti di Richey Edwards, ex compagno di band. Quelle riflessioni amare e disilluse non sono contemplate _almeno ad una prima lettura_ nelle liriche e nel sound del nuovo album. Un lavoro che semmai ricrea e fa rivivere _14 anni dopo_ la magia e la svolta melodica di Everything Must Go e in cui la parola d'ordine è pop. D'altronde, l'ha detto anche il bassita Nicky Wire in una intervista al magazine Q: "Postcards from a Young Man è un ultimo tentativo di fare comunicazione di massa. Come se fossimo ancora nei '90s." Un sound pulito ed etereo caratterizzato _nella maggioranza dei brani_ da un forte ricorso ad archi e violini che puntualmente irrompono prima di ogni ritornello ad addolcire il mood delle canzoni. L'inizio è di quelli che prendono davvero bene, con un filotto di pezzi da ricordare, a partire da (It's Not War) Just The End of Love, (quintessenza della verve mainstream dei gallesi), passando per la title track, senza ombra di dubbio il momento più alto di tutto il progetto. Some Kind of Nothingless rischia un pò con un coro gospel che fa molto Queen, mentre The Descent porta in dote un'altra meravigliosa melodia. La prima battuta a vuoto arriva con I Think I Found It Out, una divagazione poco incline all'anima dei Manics, abbruttita da un mandolino a dir poco inutile. Sul finire l'anima pop di Postcards da un pizzico di gloria al rock di A Billions Balconies Facing The Sun (in cui suona l'ex bassista dei Guns Duff McKagan). Ultimo capitolo da ricordare l'enfatica All WeMake is Entertainment.

martedì 5 ottobre 2010

Solo???

Stamani, leggendo una rece dell'ultimo dei Killing Joke (Absolute Dissent) mi sono soffermato su questa frase, che ha catturato la mia attenzione: "...la band di Jaz Coleman è (stata) post-punk, proto industrial, cripto doom, avant emo...". Niente da dire, specialmente sul cripto doom.
Dico sul serio.

domenica 3 ottobre 2010

The only exception.

When I was younger
I saw my daddy cry
And curse at the wind
He broke his own heart
And I watched
As he tried to reassemble it

And my momma swore that
She would never let herself forget
And that was the day that I promised
I'd never sing of love
If it does not exist

But darling,
You, are, the only exception
You, are, the only exception
You, are, the only exception
You, are, the only exception

Maybe I know, somewhere
Deep in my soul
That love never lasts
And we've got to find other ways
To make it alone
Keep a straight face

And I've always lived like this
Keeping a comfortable, distance
And up until now
I had sworn to myself that I'm
Content with loneliness

Because none of it was ever worth the risk

Well, You, are, the only exception
You, are, the only exception
You, are, the only exception
You, are, the only exception

I've got a tight grip on reality
But I can't
Let go of what's in front of me here
I know you're leaving
In the morning, when you wake up
Leave me with some kind of proof it's not a dream


You, are, the only exception
And I'm on my way to believing
Oh, And I'm on my way to believing

sabato 2 ottobre 2010

Love Boat.

Finally I'm here: dopo un giro in Grecia e Croazia riecchime qua... Buone notizie: dopo giorni di scarsissimi (se non nulli) ascolti musicali subiti mio malgrado (sirtaki, un po di piano bar bello finto e moquettato) al rientro sul suolo natio apprendo con gioia dell'uscita del nuovo dei Soundgarden intitolato Telephantasm (in realtà non è un nuovo lavoro, ma si tratta di qualche inedito più b-sides e demo vari, insomma un prodotto ad hoc nell'attesa del disco vero e proprio). Black rain http://www.youtube.com/watch?v=K913KVe3kH8&ob=av2n _singolo di lancio_ merita. Come disse in tempi non sospetti sua maestà Chris Cornell dalle pagine del suo account Twitter: "la pausa di dodici anni è finita. E' ora di ricominciare la scuola. I cavalieri della tavola del suono sono tornati."